Antropologia e Marketing Antropologico: lo Studio del Consumatore del XXI Secolo

antropologia
Il pianeta delle scimmie – Franklin J. Schaffner

Cos’è l’antropologia? 

Etimologicamente parlando, l’Antropologia è la disciplina che si occupa dello studio dell’uomo (dal greco ànthropos = “uomo” e lògos = “parola, discorso”), in generale potremmo dire che l’antropologia è la scienza che studia l’essere umano sotto diversi punti di vita, all’ interno della società:

  • Culturale
  • Morfologico
  • Psicologico
  • Artistico
  • Filosofico
  • comportamentale

Soffermandoci sulla branca dell’antropologia che qui ci interessa di più, ovvero quella culturale, potremmo dire che l’antropologia è lo studio dell’altro, inserito all’interno di una società. Con tutte le relazioni, dinamiche e complicazioni che questo comporta. C’è infatti sempre anche un “noi” con il quale dei “loro” devono necessariamente relazionarsi. Come già affermava Aristotele nel Libro I della “Politica”, l’uomo non è un essere isolato, ma un “animale politico e sociale” che tende per sua stessa natura ad aggregarsi con gli altri individui e a costituirsi in  gruppi e  società. Basterebbe questo per accendere una riflessione sulla propensione essenzialmente individualistica dei social network, ma questo è un altro argomento che affronteremo in un altro momento.

La definizione di antropologia

A questo proposito, una delle definizioni più efficaci di antropologia è a mio parere quella di Marc Augé, secondo il quale “L’anthropologie traite du sens que les humains en collectivité donnent à leur existence”, ovvero “l’antropologia studia il senso che gli uomini in collettività danno alla loro esistenza”.

L’Antropologia, al contrario delle altre scienze, volte alla ricerca di certezze, alla formulazione di teorie e al raggiungimento degli obiettivi, è una disciplina che potremmo definire “ribelle”. Avendo a che fare con l’uomo, non può essere fatta in laboratorio, in qualche modo “fare antropologia” vuol dire avvicinarsi quanto più possibile, con un sentimento di empatia, al vissuto dell’altro, cercando di cogliere il suo punto di vista. Tutto ciò la spinge a sollevare continuamente dubbi, a smantellare tutte le presunzioni di certezza, a mettere in discussione ogni cosa, compresi quei paradigmi sui quali si fonda la disciplina stessa, assumendo di conseguenza un atteggiamento di distacco, il famoso “sguardo lontano” (Rousseau, 1984) in grado però di cogliere punti di vista diversi. L’antropologia sa infatti di essere stata a lungo una narrazione parziale dell’alterità. Parziale perché questa narrazione avveniva in virtù di un rapporto di dominazione (“Occidente” e resto del mondo). Di questi sui “vizi” originali, chiamiamoli così, l’antropologia è oggi perfettamente consapevole, anzi è proprio in questa sua consapevolezza che risiede la sua forza, ovvero la sua capacità di mettersi sempre in discussione.

Come tutti sapete l’uomo è guidato da due impulsi ben precisi che corrispondono ai propri emisferi del cervello. La parte sinistra si occupa del pensiero logico e studia le relazioni causa-effetto basate sui dati. L’altro emisfero si occupa della parte creativa che invece è molto più irrazionale. Nel momento in cui l’uomo deve compiere un’azione o un comportamento, questi due emisferi entrano in atto. Esistono delle materie che si occupano solo dei comportamenti logici, l’antropologia invece dice che i comportamenti degli uomini sono influenzati dalla propria cultura di appartenenza. Se pensate che nel marketing o, più precisamente, nel neuromarketing si afferma che il 90% delle scelte dei consumatori sono inconsce vedete bene come marketing e antropologia si uniscono.

Il ruolo della cultura nell’antropologia

La cultura è una sorta di seconda natura che abbiamo per abitare il mondo. Molti studiosi concordano nel sostenere l’incompletezza biologica dell’uomo, il quale ha bisogno della cultura per sopravvivere. Le società infatti, per salvaguardare le basi della loro esistenza e l’identità dei propri membri, attribuiscono a certe norme, valori e simboli culturali un carattere naturale, se non addirittura sacro, al fine di farne uno strumento politico ed elevarli al di sopra di tutti gli altri. Di qui l’importanza dell’antropologia, ovvero di una conoscenza in grado di andare oltre certe semplificazioni, per formare menti aperte e flessibili. Lo studio di questa disciplina consente di cogliere il carattere situato e costruito di tutto ciò che ruota intorno all’uomo: da ciò che lo riguarda più da vicino, ovvero identità, emozioni, idee, corpo, a ciò che è invece esterno all’individuo, come ad esempio la cultura, la quale lo condiziona, ma viene a sua volta anche trasformata. Come ci insegna lo stesso concetto di “agentività” (Donzelli – Fasuolo, 2007), gli esseri umani sono dotati della capacità di agire, per cui essi non hanno semplicemente una cultura, ma la costruiscono, la producono e la trasformano.

Dare però una definizione di cultura è pressoché impossibile, dopo oltre 525 definizioni di cultura, alcuni antropologi, come Marco Aime, sono arrivati alla conclusione che la cultura è “ciò che ci tiene insieme”. La definizione più conosciuta è però senza dubbio quella dello studioso vittoriano Edward Burnett Tylor che nel suo celebre libro “Primitive Culture” nel  1871 scrisse:

«La cultura, o civiltà, intesa nel suo ampio senso etnografico, è quell’insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo come membro di una società».

La cultura, al pari dell’identità, non va considerata come qualcosa di originario, immutabile, essenziale, così intesa appare come un “imbroglio” (Fabietti, 2000). Non esistono culture pure, queste sono incomplete, aperte allo scambio, all’incrocio e all’ibridazione, sono mescolate, contaminate l’una con l’altra, possono dunque essere comprese solo da una prospettiva che adotti una “logica meticcia” (Amselle, 1999). Va messo l’accento sul suo dinamismo, sulla mutevolezza, sull’instabilità di tutte le costruzioni culturali e identitarie. La cultura non è uno stato mentale, ma una costruzione sociale: quindi non solo la sua forza agisce sugli attori sociali, ma può anche essere agita e trasformarsi.

Secondo l’antropologia, ogni gruppo sociale possiede delle caratteristiche che lo distinguono dagli altri:

  • Modelli culturali: insiemi di valori e norme sociali sempre in mutamento che stabiliscono come un individuo deve comportarsi o reagire davanti ad una situazione.
  • Valori: le condizioni ritenute desiderabili, ovvero come gli altri giudicano le tue azioni
  • Norme: prescrivono le azioni da compiere o da evitare all’interno di un contesto. Nella realtà le norme sociali possono essere osservate tramite comportamenti che si ripetono con un’alta frequenza.

Quindi, secondo l’antropologia, la cultura influenza le nostre scelte e non solo queste. Dal punto di vista antropologico è importante spiegare come anche il “sentire”, ciò il provare emozioni, sia qualcosa di culturalmente condizionato. Studiare come le emozioni vengono immaginate, definite e interpretate, ha permesso di comprendere meglio alcune relazioni sociali, ad es. i rapporti tra gruppi dominanti e  gruppi oppressi, differenze di status e caratterizzazioni di genere. È importante sapere, anche ai fini degli studi di neuromarketing, che le emozioni sono costrutti socio-culturali e che il nostro modello sensoriale è solo uno dei tanti possibili. La percezione va dunque pensata non come un “meccanismo universale”, ma come qualcosa di mediato dalla cultura. Allo stesso modo anche le idee passano attraverso l’apparato sensoriale, si fanno dunque intravedere nei suoni, nelle parole, nei gesti, nelle azioni, nelle cose e negli oggetti. Dunque anche le idee vanno colte in riferimento al contesto culturale che le ha prodotte.

Pensate alle scienze della persuasione di Robert Cialidni e al principio della riprova sociale, quanto è importante per noi che le nostre scelte siano apprezzate ed accettate?

Cosa fa l’antropologo?

 a cura di Chiara Carletti

L’antropologo si sforza di comprendere il “punto di vista dell’altro”, che sia il suo vicino di casa o uno straniero, un immigrato, o chi sta dall’altra parte dello schermo… poco importa. L’antropologia dà voce all’alterità, nella consapevolezza che lo studio dell’altro ci consente anche di capire meglio noi stessi.

Il sapere antropologico si forma a cavallo tra due mondi: l’esperienza del sé (etnografo) ed esperienza dell’altro (informatori), ciò produce un tipo di informazione che è il frutto di questa relazione, del loro scambio di informazioni e saperi. L’incontro etnografico è dunque un processo in continua trasformazione del ruolo dell’etnografo e di quello dei suoi interlocutori/informatori.  Anche questi infatti condizionano attivamente la produzione del sapere etnografico. Si tratta quindi di un’informazione frutto di negoziazioni continue.

L’antropologo dunque, attraverso quel particolare atteggiamento culturale chiamato “relativismo”, che consiste in una sorta di sospensione del giudizio, si sforza di guardare i comportamenti, gli atteggiamenti, le pratiche e le credenze altrui nei termini della cultura che li ha generati, dunque non della propria, senza per questo avere la pretesa di diventare qualcosa di diverso da sé. In sostanza l’Antropologia costruisce ponti necessari alla comprensione reciproca. Lo fa mediante tecniche di ricerca di tipo qualitativo finalizzate alla comprensione del “fatto culturale” e non semplicemente orientate alla sua individuazione o catalogazione. L’antropologo non si accontenta di stilare elenchi o formulare numeri, ma si adopera in un continuo lavorìo di mediazione fra l’identità e la differenza, fra la sua visione della realtà e quella realtà che trova davanti ai suoi occhi.

Chiara Carletti è laureata in Antropologia culturale, ha svolto ricerche in Italia e negli Stati Uniti su temi legati alle politiche identitarie e ai fenomeni migratori. Da sei anni si occupa di ricerca in campo educativo e didattico, ma anche di formazione docenti. Su www.chiaracarletti.it è possibile trovare maggiori informazioni sui suoi corsi. Oltre ad essere formatrice, è membro del Consiglio Direttivo dell’Associazione Educatori Rinascimente e del Centro Ricerche EtnoAntropologiche: nelle sue formazioni e attività laboratoriali coniuga l’aspetto antropologico con quello pedagogico, valorizzando la “didattica del fare” e lo sviluppo delle competenze, in particolare quelle di cittadinanza attiva. Ha seguito anche ricerche e percorsi formativi sul tema delle pari opportunità di genere. Negli ultimi anni si è appassionata di comunicazione e web-marketing, seguendo lavori di grafica e campagne di crowdfunding.

Cos’è il marketing antropologico

marketing antropologico

Il Marketing Antropologico è la scienza che studia e analizza i bisogni, desideri e le esigenze degli individui, calandosi nel contesto in cui le persone vivono e agiscono al fine di soddisfare il consumatore. Linda Armano  è una delle ricercatrici che ha unito queste due discipline così diverse.

Il Marketing Antropologico è un approccio interdisciplinare, tra marketing e antropologia, che utilizza strategie e tecniche che uniscono la ricerca qualitativa allo studio del mercato, al fine di comprendere meglio il consumatore da un punto di vista culturale. Secondo il marketing antropologico infatti la cultura ha un’influenza maggiore rispetto alla psicologia, o meglio, l’una influenza l’altra. Ciò significa che il Marketing Antropologico valuta la persona e i suoi consumi in base al contesto culturale nel quale è immersa. Tutti noi sappiamo che un marchio o un prodotto ci trasmettono dei valori. E quel marchio o prodotto ci piacciono quanto più ci piace lo status symbol che andiamo a rappresentare se ci leghiamo a loro.

Da quando l’antropologia è cominciata ad essere importante per il marketing? Già negli anni ‘90 Philip Kotler, uno dei più grandi guru del management,  introduceva il cambiamento del marketing da “product  oriented” a “consumer oriented”. Questo voleva dire che il marketing doveva smettere di pensare di vendere prodotti e doveva iniziare a soddisfare i bisogni dei consumatori. Nel XX secolo si inizia a parlare di marketing “human to human”, ovvero, l’azienda deve essere umana per vendere ad umani, perché  sono le relazioni con le persone che funzionano nella vendita.

human marketing

Nel campo della user experience, ovvero la materia che studia come costruire un sito web che funzioni,  la ricerca qualitativa è sempre stata molto sfruttata. Parliamo da user testing, tecniche proiettive, focus group, brainstoriming e così via, tutte tecniche per capire come si comportano i consumatori. Adesso dalla user experience si sta passando a livelli molto più alti. Non solo al marketing, ma alla sociologia e all’educazione digitale.